La L. 190/2012, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, perseguiva l’altisonante obiettivo di contrastare (o quantomeno arginare) quell’antico malcostume pervasivo, sistemico e in continua crescita, che costituisce una minaccia emergente per la stabilità e la sicurezza della società, in grado di minarne la convivenza civile.
A questa hanno fatto seguito, con cadenza quasi triennale, la L. 69/2015, recante Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio, e la L. 3/2019, c.d. “spazzacorrotti”, recante Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici.
Nell’anno 2020 due sono stati i provvedimenti che hanno, in modo diverso, interessato i delitti contro la PA:
- il D.Lgs. 14/7/2020 n. 75, recante Attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale;
- e il D.L. 16/7/2020 n. 76, recante Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, convertito nella L. 11/9/2020 n. 120.
Il secondo, c.d. decreto semplificazioni, nel recare una sorta di revirement per facilitare la ripresa del Paese, tenta di rasserenare gli amministratori pubblici terrorizzati dalla sindrome della firma – che ha consentito la fin troppo facile apertura di procedimenti penali, che solo una volta su 100 arrivano a sentenza di condanna – operando un ridimensionamento ermeneutico dell’abuso d’ufficio, già integralmente riformulato dalla L. 16/7/1997 n. 234, che segue, a sua volta, al precedente intervento compiuto con la L. 26/4/1990 n. 86.
Per quanto qui rileva, l’art. 323 c.p., dopo aver visto un aumento di pena che passa (da 6 mesi) a 1 anno nel minimo e (da 3) a 4 anni nel massimo, grazie alla L. 190/2012, è stato modificato dal D.L. 76/2020.
Sembra, allora, opportuno ricostruire il tormentato contesto storico-normativo della disposizione che consente il controllo giurisdizionale penale dell’azione amministrativa.
Nella formulazione iniziale del codice Rocco, l’abuso d’ufficio, che esprimeva una tutela del tutto sussidiaria, prevedeva la commissione, con abuso dei poteri inerenti le funzioni di pubblico ufficiale, di «qualsiasi fatto» allo scopo di «recare ad altri un danno» o di «procurargli un vantaggio». La Corte costituzionale, con sentenza 19/2/1965 n. 7, ritenne che la tipicità dell’abuso si basava sul compimento di un atto amministrativo illegittimo – per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere – e su una finalità privata idonea a caratterizzare la direzione illecita del potere.
La riforma recata dalla L. 86/1990 stabilì che l’abuso di ufficio, esteso anche agli incaricati di un pubblico servizio, dovesse essere finalizzato a un vantaggio o a un danno “ingiusto”, prevedendo un aggravamento di pena qualora il vantaggio fosse stato patrimoniale.
Tale formulazione non parse sufficientemente determinata.
Così la L. 234/1997, riformulò integralmente l’art. 323 richiedendo la violazione di legge o di regolamento o, in alternativa l’inosservanza di un obbligo di astensione e l’illiceità intrinseca del danno o del vantaggio patrimoniale – mentre quello non patrimoniale perse rilevanza. Nell’area della violazione di legge venivano così ricomprese le norme di principio quali l’art. 97 Cost., le norme di carattere procedimentale, ma anche le norme di indiretta rilevanza legislativa. L’intenzione del legislatore era quella di creare un’ipotesi di reato di danno, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo intenzionale, che potesse escludere la necessaria rilevanza penale dell’azione amministrativa illegittima.
Ritenuto insufficiente l’intervento, nel perseverare l’intento di ridurre l’area della sanzione penale, pur residuando i rimedi di natura civile e disciplinare, l’art. 23 D.L. 76/2020 – al motto di “stop alla paura della firma” – circoscrive la condotta tipica dell’abuso d’ufficio alla violazione «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
Il restyling operato dal decreto semplificazioni, che riduce il perimetro dell’ambito applicativo della norma nell’an, nel quid e nel quomodo, comporta tre macro-conseguenze.
1) L’eliminazione dei regolamenti dal novero delle fonti la cui inosservanza può dar luogo all’abuso d’ufficio, stante la rilevanza della sola violazione di norme primarie. E’ noto, tuttavia, che proprio nei regolamenti si rinvengono regole di condotta espresse e specifiche e capaci di orientare e uniformare l’operato degli amministratori; si pensi ai regolamenti statali adottati ai sensi dell’art. 17 L. 400/1988 e ai regolamenti adottati dagli enti territoriali ex art. 7 D.Lgs. 267/2000. Restano, comunque, irrilevanti, come nel passato, le eventuali violazioni di decreti ministeriali, di circolari e/o di delibere di enti pubblici.
2) La limitazione dell’inosservanza alle sole regole di condotta specifiche ed espressamente previste, aventi contenuto immediatamente precettivo, che il funzionario pubblico è tenuto a rispettare. Conseguentemente, sembrano rilevanti solo le norme specificamente dirette a prescrivere o a vietare una determinata condotta, mentre restano irrilevanti le norme meramente procedimentali o programmatiche. Resta che la violazione dei principi generali espressi nell’art. 97 Cost., consistenti nel dovere costituzionale di imparzialità e buon andamento della p.a., difficilmente potrà essere esclusa dalla riforma, in quanto costituisce un parametro di riferimento del reato.
3) L’attribuzione di rilevanza alle sole regole di condotta vincolanti, dalle quali non residuino margini di discrezionalità. Ciò significa che la violazione di una regola di condotta, caratterizzata da margini di discrezionalità – amministrativa, tecnica o politica – non può più integrare un abuso d’ufficio. Conseguentemente, non possono censurarsi penalmente gli atti viziati da eccesso di potere. Si osserva, tuttavia, che i casi di atto vincolato sono rari e attinenti la sfera dell’attività amministrativa di mera esecuzione – un’ipotesi potrebbe riguardare la tempistica, ove prevista, di adozione dell’atto.
Insomma, aver eretto una cortina immunitaria intorno alla discrezionalità amministrativa unitamente agli altri soffocanti requisiti applicativi, sembra rendere il nuovo abuso d’ufficio un reato a realizzazione impossibile.
La deriva ermeneutica dell’art. 323 c.p. trova però un contraltare nell’altra modalità, invece, immodificata, costituita dall’inosservanza dell’obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi, che continua a investire anche l’esercizio della discrezionalità amministrativa, nonché il duplice evento, alternativo, dell’ingiusto vantaggio patrimoniale e del danno ingiusto, oggetto di dolo intenzionale.
Avv. Fabio Piccioni
del Foro di Firenze
Ricevi i nostri nuovi articoli direttamente nella tua E-Mail