Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è una misura sanitaria che incide direttamente sulla libertà personale, imponendo un ricovero forzato in presenza di gravi condizioni psichiatriche non trattabili diversamente.
L'articolo 32 della Costituzione italiana al comma 2 stabilisce una riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori, affermando che tali obblighi possono essere imposti solo attraverso una legge, escludendo fonti normative inferiori, garantendo così una protezione più ampia per il diritto alla salute. L'uso dei Trattamenti Sanitari Obbligatori rappresenta ancora oggi una delle sfide più delicate e complesse nell'ambito della salute mentale e del diritto civile. Questi trattamenti sono spesso necessari per proteggere la salute dei pazienti stessi e della comunità, ma sollevano importanti questioni etiche, giuridiche e cliniche, che richiedono un approfondimento e una riflessione critica da parte degli addetti ai lavori e per quanto possibile da parte della società. Il diritto ad essere curato, di ognuno, è strettamente legato al disposto dell’art. 13 della Costituzione, vale a dire al principio di inviolabilità della libertà personale: ogni individuo è libero di scegliere da quale medico farsi curare, in quale luogo ricevere le cure, quali trattamenti diagnostici e terapeutici eseguire e non esiste nessun obbligo in ordine alle cure e alle modalità con cui queste devono essere somministrate e ricevute e, dunque, la scelta di non curarsi e di non sottoporsi ad alcun trattamento sanitario è prevista ad un tempo sia all’art. 13 che all’art. 32 della nostra Carta Costituzionale. D’altro canto, il diritto dell'individuo di decidere se sottoporsi o meno a un qualsiasi trattamento medico e lo speculare divieto di essere obbligati a trattamenti sanitari, ha una limitazione specifica secondo la Carta costituzionale, espressa nel secondo comma dell'art. 32. Quest’ultima norma, dopo aver stabilito che nessuno può essere costretto a un trattamento medico specifico, precisa che l’obbligo de quo può figurarsi solo se previsto dalla legge. Pertanto, la norma pone una riserva di legge secondo cui i trattamenti sanitari obbligatori sono consentiti solo se stabiliti dalla legge e solo per garantire la tutela evidente della salute della collettività. Un aspetto particolarmente critico della procedura prevista dalla legge riguarda, in realtà, la modalità con cui viene disposta: un provvedimento amministrativo che, sebbene preveda una convalida giurisdizionale ex post, limita in modo significativo la libertà individuale senza un preventivo controllo giudiziario effettivo. Per completezza va osservato che l’ordinanza di TSO, pur essendo formalmente un provvedimento amministrativo, assume una valenza giuridica più ampia dal momento che il Sindaco riveste nel caso specifico il ruolo di autorità sanitaria locale. Questa duplice natura del provvedimento – amministrativo nella forma, ma con un impatto diretto sulla libertà personale – lo distingue inevitabilmente da altri atti di mera gestione amministrativa. Il fatto che il TSO venga disposto dal Sindaco con specifica ordinanza, in qualità di autorità sanitaria locale, conferisce al provvedimento una rilevanza istituzionale maggiore rispetto ad un semplice atto amministrativo. Il Sindaco, infatti, agisce in forza di un potere specificamente attribuitogli dalla legge per la tutela della salute pubblica del territorio di competenza.
L’attuale disciplina del TSO è regolata dalla legge n. 833 del 23 dicembre 1978, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e ha recepito i principi introdotti dalla legge n. 180 del 13 maggio 1978, nota come Legge Basaglia. Quest’ultima ha segnato una svolta nella psichiatria italiana, ponendo fine al sistema manicomiale e introducendo un modello basato sul consenso informato e sulla centralità del paziente. Prima della riforma, il sistema era regolato dalla legge n. 36 del 1904, che permetteva il ricovero coatto per chiunque fosse considerato “pericoloso per sé o per gli altri”, senza particolari garanzie per il soggetto internato.
Con la riforma del 1978, il ricovero obbligatorio è stato limitato a casi di effettiva necessità, ovvero quando il paziente rifiuta le cure nonostante lo stato di malattia mentale richieda un intervento urgente. L’art. 33 della legge n. 833/1978 stabilisce che il TSO può essere disposto solo su proposta di due medici, convalidata dal sindaco del Comune di residenza del paziente, in qualità di autorità sanitaria locale. Entro 48 ore, il provvedimento deve essere ratificato dal giudice tutelare, il quale può confermare o revocare la misura. Questo iter, pur ispirato alla necessità di garantire tempestività negli interventi di emergenza medica e psichiatrica, solleva numerosi interrogativi sulla sua compatibilità con il sopracitato articolo 13 della
Costituzione italiana, che sancisce appunto il principio per cui qualsiasi restrizione della libertà personale può essere disposta soltanto con atto motivato dall’autorità giudiziaria. Di fatto, il Trattamento Sanitario Obbligatorio viene attuato sulla base di un provvedimento amministrativo, pur rafforzato come sopra accennato, che successivamente può trasformarsi, almeno temporaneamente, in una forma di detenzione sanitaria senza il preventivo vaglio di un giudice. In tale senso, la misura presenta tratti peculiari rispetto ad altre limitazioni della libertà personale previste dall’ordinamento giuridico, come la custodia cautelare o il fermo di polizia, le quali invece richiedono sempre l’immediato intervento dell’autorità giudiziaria. L’assenza di un controllo giurisdizionale preventivo implica, dunque, un rischio di arbitrarietà e solleva dubbi sulla compatibilità del TSO con le garanzie costituzionali in materia di diritti fondamentali. Già in passato, non a caso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha espresso riserve su sistemi analoghi, evidenziando la necessità che ogni misura restrittiva della libertà personale sia accompagnata da adeguate garanzie procedurali, tra cui la possibilità di un rapido diritto di ricorso. Nel caso del TSO, il paziente può impugnare la misura soltanto successivamente alla sua esecuzione, e questa caratteristica dell’iter riduce inevitabilmente e in quantità notevole l’effettività del diritto di difesa del paziente. Aspetto, questo, più volte esaminato nel tempo dalla Corte di Cassazione, la quale ha ribadito la necessità di assicurare un controllo giurisdizionale più immediato sin dalle prime fasi del procedimento. Un dibattito giuridico, dunque, di primaria rilevanza, che si intreccia con le più recenti pronunce della Suprema Corte e con l’ormai sempre più necessario intervento della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’attuale impianto normativo in materia.
Il dibattito è tanto più rilevante quanto più diffusi sono i casi di Trattamento Sanitario Obbligatorio sul territorio italiano. Secondo i dati più recenti, soltanto nella città di Torino si sono registrati 788 TSO nel quinquennio 2019-2023, con una crescente incidenza tra i giovani: circa il 30% dei soggetti sottoposti a TSO ha meno di 31 anni. A livello nazionale, sebbene i dati mostrino una leggera flessione rispetto al passato, si stima che ogni anno in Italia vengano effettuati tra 8.000 e 10.000 TSO. Numeri che inevitabilmente sollevano e alimentano interrogativi sulle modalità di esecuzione e sulle tutele offerte ai pazienti interessati.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 509/2023, ha proprio recentemente osservato che l’ospedalizzazione in regime di TSO per un disturbo mentale costituisce un evento intriso di problematicità, essendo associata ad una presumibile condizione di incapacità del paziente a prestare un valido consenso. La pronuncia in questione ha affermato la possibilità di ricorrervi nel caso siano contemporaneamente presenti le seguenti tre condizioni: a) alterazioni psichiche che richiedono urgenti interventi terapeutici; b) mancata accettazione degli interventi terapeutici proposti; c) impossibilità di adottare tempestive/idonee misure sanitarie extra-ospedaliere. L’obbligatorietà del trattamento rappresenta una deroga al principio del consenso informato: il TSO si configura come un’eccezione a tale principio, autorizzando l’imposizione forzata di cure in assenza di consenso e in virtù della presunta incapacità del paziente di comprendere la necessità del trattamento.
Sostanzialmente questa procedura è stata associata ad una logica estremamente repressiva, all’insegna della contenzione e della prevaricazione, in contrasto con lo spirito e la cultura psichiatrica che erano alla base della norma. È il caso di ricordare che il TSO non deve essere considerato una misura di difesa sociale, ma un mezzo di tutela della salute mentale del paziente e che la deroga al principio del consenso informato costituisce un’altra delle questioni controverse del diritto sanitario, richiedendo un costante bilanciamento tra esigenze di salute pubblica e tutela della libertà individuale.
Da ultimo la recente ordinanza n. 24124 del 9 settembre 2024, sempre della Suprema Corte, ha riaperto un dibattito cruciale, sollevando una questione di legittimità costituzionale in merito alla procedura attuale, evidenziandone appunto le carenze rispetto ai principi sanciti dall’art. 13 della Costituzione e dall’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Il nodo centrale riguarda, come accennato, il mancato controllo giurisdizionale automatico e successivo sulla misura, che, in assenza di una revisione obbligatoria da parte di un giudice terzo, rischia di configurare una detenzione illegittima.
Attualmente, vale la pena ripetere, il TSO viene disposto dal sindaco, su proposta di due medici, e deve essere convalidato dal giudice tutelare entro 48 ore. Il primo medico è il professionista che effettua una prima valutazione sul paziente: può essere un medico di base, un medico di pronto soccorso o uno specialista in psichiatria che constata l’esistenza di un grave disturbo psichiatrico che rende necessario il trattamento coatto. Il suo ruolo è quello di accertare in prima battuta la necessità del paziente, redigendo una prima certificazione che ne motivi la preliminare valutazione. Il secondo medico, necessariamente appartenente a struttura sanitaria pubblica, generalmente si tratta di un professionista di un servizio psichiatrico di diagnosi e cura o di un dipartimento di salute mentale. Il secondo parere serve a garantire una verifica indipendente e qualificata sulla reale necessità della misura. Entrambi i medici devono attestare congiuntamente la presenza dei presupposti previsti dalla legge per l’attivazione del TSO, prima che il Sindaco, in qualità di autorità sanitaria locale, possa emettere il provvedimento. Tuttavia, il procedimento non garantisce una notifica immediata al paziente, limitando così il diritto di opposizione in una prima fase. Secondo la Corte di Cassazione, il soggetto sottoposto a TSO può impugnare il provvedimento soltanto a posteriori, quando la misura è già stata eseguita, riducendo significativamente il diritto ad un ricorso effettivo. Questo meccanismo è stato definito “irragionevole”, poiché “il diritto all’ascolto deve essere assicurato non solo nella fase medica, ma anche in quella giurisdizionale, dove dovrebbe concretarsi in un ben più incisivo diritto al contraddittorio e alla difesa”. Questa posizione non è nuova: già la Cassazione, sezione VI, n. 22998/2020, aveva evidenziato la necessità di garantire una tutela giurisdizionale effettiva per i soggetti sottoposti a TSO, mentre con la sentenza n. 8969/2022, la Suprema Corte aveva richiamato l’obbligo per il giudice tutelare di verificare attentamente i presupposti della misura, evitando convalide meramente formali.
L’importanza di una revisione delle modalità di esecuzione del TSO è stata evidenziata anche da numerosi casi di cronaca, che hanno alimentato un dibattito sull’abuso di questa misura. Emblematico è il caso di Andrea Soldi, deceduto a Torino nel 2015 durante un TSO, a seguito di un intervento giudicato eccessivamente coercitivo, che ha portato alla condanna degli agenti coinvolti. Personalità di spicco hanno raccontato esperienze drammatiche, cercando di normalizzarne il dibattito pubblico e suscitare consapevolezza sul tema. Lo scrittore Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega nel 2017, ha denunciato le modalità con cui è stato trattato: “In ospedale mi hanno legato a un letto con delle cinghie, mi hanno sparato un siringone nella coscia senza dirmi cosa fosse. Secondo me, quello che mi hanno fatto era illegale”.
Non si può parlare di TSO e salute mentale, senza menzionare la pionieristica testimonianza letteraria della poetessa Alda Merini, che visse direttamente l’esperienza dei ricoveri psichiatrici forzati. In una delle sue opere più celebri, “L’altra verità. Diario di una vita diversa”, la poetessa descrisse il manicomio come un luogo di profonda sofferenza, e soprattutto affronta il tema libertà: “Sono stata una pazza incosciente che ha voluto provare tutto. Ma la libertà è un’altra cosa. La libertà di stare in una stanza bianca senza sapere se è giorno o notte, senza sapere se sei vivo o morto”. La crudità di questo concetto si ricollega perfettamente al dibattito attuale sul TSO, sollevando la questione di come bilanciare il diritto alla cura con la dignità e la libertà della persona. Il paziente come persona e non mero protocollo. La salvaguardia della salute mentale come obiettivo finale e primario.
Una possibile prospettiva di riforma potrebbe in linea teorica ispirarsi alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), strutture introdotte in sostituzione degli ospedali psichiatrici giudiziari, le quali offrono un approccio più orientato alla riabilitazione e al reinserimento sociale piuttosto che alla pura coercizione. L’esperienza delle REMS dimostra che è possibile coniugare la necessità di una presa in carico terapeutica con il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona, evitando l’abuso di misure restrittive della libertà personale costituzionalmente sancita. Ad onore del vero occorre precisare le REMS non hanno in concreto risolto il problema di fondo relativo alla gestione degli infermi di mente colpevoli di reati gravi e pericolosi per la società.
La recente sentenza sopra citata si inserisce in un dibattito non solo giuridico, ma anche letterario, mediatico, sociale molto più ampio, che riguarda il bilanciamento tra tutela della salute pubblica e protezione dei diritti fondamentali della persona, specialmente in un ambito delicato come quello della salute mentale.
L’intervento della Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità del sistema attuale, sarà determinante per il futuro dei trattamenti sanitari obbligatori in Italia. Il rischio di abusi e detenzioni arbitrarie, in assenza di una revisione adeguata, è troppo alto per essere ignorato. In un contesto dove il principio di legalità deve in ogni caso prevalere, è essenziale che il legislatore intervenga per garantire un sistema giuridico conforme ai valori costituzionali e ai trattati internazionali sui diritti umani. L’auspicio è che il dibattito aperto da questa pronuncia porti a una riforma che coniughi efficacia del trattamento sanitario e garanzia dei diritti fondamentali, senza lasciare spazio a zone d’ombra giuridiche che potrebbero minare la fiducia nel sistema di tutela della salute mentale in Italia.
In una prospettiva di riforma, prestando uno sguardo al panorama di possibilità, si potrebbe forse ipotizzare l’introduzione di un meccanismo che preveda un’udienza preliminare davanti a un giudice prima - o quantomeno nell’immediatezza, nei casi più complessi - dell’effettiva esecuzione del TSO, garantendo così al paziente la possibilità di essere ascoltato, anche tramite un rappresentante legale se la situazione non consentisse diverse soluzioni, prima che la misura diventi operativa. Un altro possibile intervento potrebbe consistere nel rafforzamento delle strutture di monitoraggio e tutela dei diritti dei pazienti, mediante l’introduzione di organismi indipendenti incaricati della vigilanza sulla corretta applicazione della normativa e sul rispetto della dignità umana del paziente durante l’iter complessivo di attuazione del protocollo.
Alla luce di tale contesto, il ruolo degli operatori di Polizia Locale nell’esecuzione dei Trattamenti Sanitari Obbligatori si rivela tutt’altro che marginale e si inserisce non soltanto come funzione di supporto logistico, ma di un ben più ampio compito intriso di responsabilità e richiedente alta formazione e professionalità in situazioni in cui la già sottile linea di confine tra tutela della sicurezza e protezione dei diritti fondamentali del paziente, tra protocolli e diritti della persona, può diventare sfumata se non addirittura talvolta pericolosamente sbiadita. Gli agenti di Polizia Locale si trovano spesso ad essere il primo contatto diretto tra le istituzioni e un soggetto in una condizione di estrema vulnerabilità, un momento quindi in cui la divisa non rappresenta soltanto l’autorità e l’osservanza dei protocolli previsti dalla legge, ma anche la garanzia del rispetto della dignità umana. E qui potenzialmente si annida il paradosso operativo: la Polizia Locale, che per definizione agisce per consentire l’applicazione della legge, si trova ad applicare misure e protocolli la cui legittimità costituzionale è oggi oggetto di profonda revisione. Non è sufficiente, quindi, conoscere e seguire pedissequamente i protocolli, ma all’operatore di Polizia Locale viene necessariamente richiesta una skill ulteriore, che attiene alla sfera di competenze relazionali ed emotive, una capacità cioè di leggere la fragilità che si palesa di fronte, di comunicare in modo adeguato e non violento, di agire con consapevolezza che ogni gesto ha un preciso peso giuridico e morale. La responsabilità dell’intervento va ben oltre quindi la semplice esecuzione di un ordine amministrativo: si tratta di partecipare, in modo consapevole, a un atto che priva temporaneamente un individuo della propria libertà, e proprio per questo richiede una gestione ancor più armata di cautela, sensibilità e rispetto. L’evoluzione naturale vedrebbe gli operatori di Polizia diventare sempre più parte attiva di un sistema che evolve, dove una formazione specifica è più che necessaria, dove una partecipazione diretta a tavoli di lavoro con le autorità sanitarie e istituzionali è decisamente auspicata. La strada da percorrere, in attesa di maggiori sviluppi normativi, non sembra poter essere che questa, partendo dalla consapevolezza che dietro ad ogni intervento c’è una persona la cui storia non si esaurisce nel momento del ricovero. E, in fondo, la vera forza di chi indossa una divisa, qualsiasi essa sia, non risiede soltanto nelle istituzioni che rappresenta, ma nella capacità di esercitarla con preparazione, intelligenza critica e imprescindibile umanità.
dott. Giovanni DONGIOVANNI
Com.te PL Monza
dott.ssa Federica CURCIO
Vice Comissario PL Centro Martesana (Cascina de Pecchi, Bussero)